Perché ammettiamolo, dai, non ci sono solo
lati positivi.
Essere expat non è sempre rose e fiori, come
la vita in generale, del resto.
Ma essere expat ti mette in una situazione di
confine, in cui le tue certezze e persino i tuoi modelli di comportamento vengono
messi in discussione. E ti scuote. E mette in crisi ogni cosa che fino a quel
momento era scontata.
Ci si chiede se ne è valsa la pena, ci si
sente soli, ci si immagina come romantici emigranti appena scesi dal Titanic. E
non serve a niente Skype, Facebook, il quotidiano online. Si è straziati tra il
desiderio di restare ancorati alle proprie radici e quello di immergersi a
testa sotto nella nuova cultura, che si ama e si odia, e si guarda sempre e
comunque dal di fuori. Come un gatto d’inverno chiuso fuori casa. Combattuto
tra la voglia di entrare e il dispetto per essere stato lasciato fuori.
Vale la pena dunque? Come tutte le cose nella
vita, sì. Niente che non ti scuota lascerà il segno.
Tante volte in questo primo mese ho guardato
avanti e indietro, mi sono fatta domande, mi sono sentita spaesata. “Ma è così
per tutti?”, mi chiedevo.
È nata così l’idea di chiedere ad altri, che
prima di me si erano trovati nella stessa situazione, cosa avevano provato.
Raccogliere le emozioni, i sorrisi e i sospiri di chi già ci era passato. Ecco quindi i risultati di una piccola survey
diffusa tra amici e conoscenti che erano andati a cercare fortuna all’estero. Badate bene, non ha nessuna pretesa scientifica, si basa su un gruppo ristretto di persone (22) e non è quindi rappresentativa della situazione generale.
Chi sono dunque gli expat di questa survey? Dove si trovano?
Sono arrivati ovunque: in paesi caldi e
freddi, vicini e lontani, prosperi o meno. Più della metà di loro se ne è andata dal
caldo verso il freddo, in paesi piovosi come Olanda e Inghilterra. In media sono fuori da circa 4 anni e mezzo,
ma c’è chi è espatriato da 14 anni e chi da appena tre mesi (e risponde alle domande in tono titubante, come a dire “ma magari poi cambia”). Quasi l’80% di loro è ancora all’estero, ed è
giovane: ragazzi e ragazze intorno ai 30 anni, che a differenza dei
loro genitori ancora non sono sposati ne’ pensano ad una famiglia. Ma c’è anche
qualche coraggioso che è partito con moglie e figli piccoli.
Ma perché l’hanno fatto?
LE MOTIVAZIONI
La maggior parte ha la speranza di garantirsi un futuro migliore. Quindi c’è
chi parte per il PhD, chi per il Master: sono diversi gli emigranti di oggi,
sono gente colta e preparata, agguerrita e ambiziosa, che sa che dovrà darsi da
fare per raggiungere gli obiettivi che si è preposta, e sa che ormai in Italia
l’eccellenza è ereditaria o è un miraggio. Ma forte è anche la curiosità: c’è
chi, come N., parte solo perché ha “always wondered how living in New York was”.
Pochi partono per amore. Nessuno, fra di loro, parte (o ammette di partire) per
sconforto.
VITA SOCIALE
Ma è facile rifarsi una vita in un paese diverso, con gente diversa, dalle
consuetudini diverse?
No. Praticamente tutti sono d’accordo sulla difficoltà di stringere amicizie.
Qualcuno è ottimista, altri hanno rinunciato. L. addirittura dice “I live like an old immigrant with my Italian
community”. Viene additata la chiusura del nuovo popolo,
fare amicizia tra expat è più facile, forse perché ci si trova sulla stessa
barca, e si parla anche la stessa lingua dei gesti, dei rituali, del modo di
interagire.
C’è da dire che chi è sceso verso il mediterraneo, ovvero gli expat che vivono in Italia o altri paesi del sud Europa, è di un altro parere: “I
never found it difficult making friends in Italy. Most people are nice and open
minded”, “Italians
are very friendly”, “there's no problem with making friends”. Alé! Vantiamoci un po’ quando possiamo! Se possiamo batterci una pacca sulle spalle, noi italiani, non è certo per l’economia o la puntualità, ma sicuramente possiamo essere orgogliosi del fatto di essere aperti e ospitali.
Lo siamo anche quando andiamo all'estero: alla domanda "was it easy to make friends?" ben due italiani espatriati hanno risposto “everybody loves Italians!”. La convinzione, a noi dello
stivale, non ci manca.
DIFFICOLTÀ
Personalmente, mi aspettavo che la difficoltà maggiore fossero le cose pratiche: farsi una
casa, un’assicurazione sanitaria, un conto corrente con l'online banking in
olandese. Quello temevo e a quello ero preparata. Invece poi, al solito, la
vita ti sorprende. La difficoltà maggiore, per me ma non solo, è fare i conti
con un malessere latente e insidioso, quello di “non sentirsi a casa”.
“I never get used to be far away from my family”,
“I don't feel fully at home”, “You remain a foreigner with a different cultural
background also after several years", "After many years living abroad you see your friends from school having kids who
grow up where you have been grown up, and you realize you will not be able to
share this by having kids in a different place", "You might feel homesick and
alone from time to time”, “Getting familiar with a new people (intended as "popolo") is difficult”,
“I dread the overall hypocrisy”, “Sometimes I don't feel "at home"”, “it's hard to get used to the
culture of the country”.
Chi arriva in Italia, invece, lamenta
l’intricata ed estenuante burocrazia. Ma anche “all the types of coffee available” and "the polemica: (that, in my view, unhealthy
habit of making a big fuss just about anythig)”.
GIOIE
Ho chiesto a tutti di raccontare “what is the BEST thing about being an expat”.
In tanti, tantissimi, rispondono “to get to know new cultures”. Quindi, alla resa dei conti, un cuore ce lo abbiamo: non andiamo via
solo per fare carriera.
Alcuni, comunque, rivelano che più che gioia c’è
sollievo: cioè, invece che entusiasmarsi per cose nuove, sono felici per
quello che si sono lasciati indietro. “We screwed our country up”, “a few things I was used to live with are now absolutely unacceptable”.
E gli stranieri in
Italia, invece? In questo caso sono d’accordo. Anche loro parlano di scoperta,
di maturità, di “eye-opening experience”.
NOSTALGIA CANAGLIA
Cosa manca, dell'Italia, agli italioti avventurieri? Qua si scade nel banale, mi spiace. Rassegnatevi. Quello
che manda all’italiano mammone è la famigghia, che domande.
“My family”,
“friends and family”, “family and friends”, “I miss my family”, “mi piacerebbe
vedere la partita sul divano di casa con mio papà”. E così via. Ma vi giuro che
potrei andare avanti a lungo, e tutti hanno usato le parole “friends” e
“family”. Ma è anche normale in fondo, non solo per noi italiani. Stare lontano
dagli affetti ti fa sentire sradicato e privo di difese, ed è la prova peggiore
per chiunque, italiano o no. Infatti anche tutti gli stranieri mettono
le persone care al primo posto.
E al secondo? Il ciiiiboooo! Qualcuno mi fa la
lista della spesa: “prosciutto crudo, mozzarella, tortellini, parmigiano”.
Insomma è vero il detto che la strada verso il cuore passa per lo stomaco.
Le risposte che mi sono piaciute di più, comunque, riguardano i piaceri semplici: la colazione al bar, la possibilità di godersi le bellezze del proprio paese, le gite fuori porta. Qualcuno di sensibile ha nostalgia del colore del cielo patrio.
A me, ve lo dico, finora non è mancata nessuna di queste cose. Ne' la famiglia, ne' il cibo. Vabé, mi manca il mio ragazzo, quello sì. Ma soprattutto la possibilità di relazionarsi in maniera (per me) spontanea. È la totale mancanza di convenevoli, in cui ero diventata così brava. Going Dutch, per me, è difficile come chiudere il lucchetto della catena con le mani gelate.
Le risposte che mi sono piaciute di più, comunque, riguardano i piaceri semplici: la colazione al bar, la possibilità di godersi le bellezze del proprio paese, le gite fuori porta. Qualcuno di sensibile ha nostalgia del colore del cielo patrio.
A me, ve lo dico, finora non è mancata nessuna di queste cose. Ne' la famiglia, ne' il cibo. Vabé, mi manca il mio ragazzo, quello sì. Ma soprattutto la possibilità di relazionarsi in maniera (per me) spontanea. È la totale mancanza di convenevoli, in cui ero diventata così brava. Going Dutch, per me, è difficile come chiudere il lucchetto della catena con le mani gelate.
TORNA A CASA LASSIE?
Alla fine della survey, c'era la domanda da un milione di dollari: tornerai mai?
Si, no, forse. La maggior parte sa di voler tornare, ma non sa ne’ come ne’ quando, e non è convinta di sapersi riabituare a quello che ha lasciato indietro. “I like to think I will be back at some point, but the more I see happening the more I am not sure about that. Especially if I compare what I would not have there with what I have abroad: chance to grow and hope that I can make it”.
Non ci si vergogna di parlare di “roots”: che si tratti di reconnect o di affection, tutti sentono di avere un legame indissolubile con l’Italia, e sperano di costruire lì la propria famiglia. Per quanto abbiano girato, per quanto si sentano cosmopoliti, quasi tutti sentono il bisogno di crescere i propri figli nello stesso ambiente in cui loro sono cresciuti, di sentirli parlare col loro stesso accento, di vederli giocare nelle stesse piazze e sotto lo stesso sole.
Gli stranieri in Italia, loro invece, non hanno ripensamenti: io qui sto bene.
Forse che siamo noi, gli italiani, a non saperci godere la nostra terra? Forse che non sia poi così tutto male? Forse che ci piaccia lamentarci? O forse che si debba guardarla da lontano, la nostra bella Italia, per vederne le bellezze? Come una donna stupenda ma petulante, che ti è entrata sotto la pelle e non riesci a toglierti dalla testa. Sai di non poterla sopportare, ma ti fa venire i brividi quando chiudi gli occhi e la pensi.
Si, no, forse. La maggior parte sa di voler tornare, ma non sa ne’ come ne’ quando, e non è convinta di sapersi riabituare a quello che ha lasciato indietro. “I like to think I will be back at some point, but the more I see happening the more I am not sure about that. Especially if I compare what I would not have there with what I have abroad: chance to grow and hope that I can make it”.
Non ci si vergogna di parlare di “roots”: che si tratti di reconnect o di affection, tutti sentono di avere un legame indissolubile con l’Italia, e sperano di costruire lì la propria famiglia. Per quanto abbiano girato, per quanto si sentano cosmopoliti, quasi tutti sentono il bisogno di crescere i propri figli nello stesso ambiente in cui loro sono cresciuti, di sentirli parlare col loro stesso accento, di vederli giocare nelle stesse piazze e sotto lo stesso sole.
Gli stranieri in Italia, loro invece, non hanno ripensamenti: io qui sto bene.
Forse che siamo noi, gli italiani, a non saperci godere la nostra terra? Forse che non sia poi così tutto male? Forse che ci piaccia lamentarci? O forse che si debba guardarla da lontano, la nostra bella Italia, per vederne le bellezze? Come una donna stupenda ma petulante, che ti è entrata sotto la pelle e non riesci a toglierti dalla testa. Sai di non poterla sopportare, ma ti fa venire i brividi quando chiudi gli occhi e la pensi.
La nostra terra è stupenda però la stiamo lasciando morire.
RispondiEliminaDal punto di vista etico, culturale e di tutte le cose che ci rendevano unici nel mondo, stiamo lentamente dissolvendo il patrimonio che ci è stato lasciato da chi per primo ha dato forma a questa terra proprio in senso etico, culturale ed economico.
Se penso a mio figlio, non per sfiducia in lui, ma per quello che vedo intorno, per tutti i "lasciamo che sia", per tutto quello che di giorno in giorno ci facciamo andare bene (anche io ne sono colpevole), ho paura che sarà sempre più difficile per lui trovarsi il proprio spazio e poter avere per lo meno le stesse possibilità che ho avuto io. Tutti desiderano il massimo per i propri figli e fanno fatica a pensare di vedereli in difficoltà maggiori delle proprie. Questo mancanza di fiducia generalizzato che si respira da un pò di tempo non mi piace, per il resto rimane un paese bellissimo.
Grazie Spltek per aver condiviso queste riflessioni. Credo che quello che provi sia un sentimento molto diffuso, e che sia quello che spinge molti - come me - a cercare il proprio futuro altrove. Speriamo poi che parte di questo folto gruppo torni a casa ricco della nuova esperienza e pronto a risollevare il nostro bel paese. Per noi e per le generazioni a venire.
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